Teheran, 3 dicembre 2025 – Jafar Panahi, il regista iraniano vincitore della Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, è stato condannato in contumacia a un anno di carcere e a due anni di divieto di uscire dal Paese. La sentenza è stata emessa dal tribunale di Teheran con l’accusa di “attività di propaganda” contro lo Stato. La notizia è stata confermata ieri dal suo avvocato, Mostafa Nili, che ha annunciato l’intenzione di fare ricorso. Panahi, 65 anni, si trova fuori dall’Iran, impegnato a promuovere all’estero il suo ultimo film.
Condannato senza processo: cosa rischia Panahi
Secondo il legale Nili, che ha parlato con l’agenzia AFP, oltre alla pena detentiva il regista non potrà partecipare a nessun gruppo politico o sociale. Le accuse parlano genericamente di “propaganda” contro la Repubblica islamica, senza entrare nel dettaglio delle presunte azioni. “Faremo ricorso”, ha detto Nili, sottolineando che il processo si è svolto senza la presenza di Panahi, che così non ha potuto difendersi.
La sentenza arriva in un momento difficile per la cultura in Iran, dove registi e artisti vivono sotto il costante controllo delle autorità. La vicenda di Panahi non è un caso isolato: negli ultimi anni diversi cineasti sono finiti sotto accusa per presunte violazioni delle leggi sulla sicurezza o per aver criticato il governo.
Il trionfo a Cannes e l’attenzione globale
Panahi ha conquistato la Palma d’Oro a Cannes con “Un semplice incidente”, un film che racconta la storia di cinque ex detenuti alle prese con il dilemma della vendetta contro un uomo che considerano responsabile delle loro sofferenze. La pellicola, scelta dalla Francia come candidato ufficiale agli Oscar 2026 per il Miglior Film Internazionale, è stata presentata di recente negli Stati Uniti, con tappe a Los Angeles, New York e Telluride, dove il regista ha incontrato pubblico e critica.
Anche i media iraniani hanno riportato la vittoria di Panahi, pubblicando la sua foto in occasione del successo a Cannes. Tuttavia, dietro le luci della ribalta internazionale, il rapporto tra il regista e le autorità di Teheran resta teso. Dal 2010 Panahi ha subito diversi provvedimenti restrittivi: prima il divieto di girare film e di uscire dal Paese, poi una condanna a sei anni di carcere (solo in parte scontata) per aver sostenuto le proteste antigovernative del 2009.
Tra censure e arresti, la battaglia di Panahi
Non è la prima volta che Panahi si scontra con la giustizia iraniana. Nel 2011, nonostante il divieto di dirigere per vent’anni, riuscì a far arrivare a Cannes il documentario “Questo non è un film”, nascosto su una chiavetta USB infilata in una torta. Nel 2015 tornò a far parlare di sé con “Taxi”, girato interamente dentro un’auto e premiato al Festival di Berlino.
Nel luglio 2022 Panahi fu arrestato di nuovo, insieme ad altri registi, durante le proteste contro la repressione della libertà artistica. Rilasciato dopo quasi sette mesi, ha ripreso a lavorare tra mille difficoltà. “In Iran ogni parola può essere fraintesa”, aveva confessato in un’intervista a Parigi lo scorso settembre.
La stretta sugli artisti in Iran
Il controllo sulle attività di registi e media resta molto stretto. Fonti locali raccontano che le autorità tengono sotto osservazione ogni opera, alla ricerca di critiche al sistema. Solo l’anno scorso, il regista Mohammad Rasoulof – anche lui pluripremiato – è fuggito dall’Iran per evitare una condanna al carcere per “collusione contro la sicurezza nazionale”.
La vicenda di Panahi riporta in primo piano la situazione difficile degli artisti in Iran. Mentre il suo film si prepara a correre agli Oscar, il futuro del regista è tutto da scrivere. “Non smetterò di raccontare storie”, ha detto Panahi durante una proiezione a New York. Ma in Iran, oggi come ieri, ogni storia può trasformarsi in un’accusa.










