Nel corso della nostra vita, esperienze traumatiche possono spingerci a dissociare parti della nostra storia, chiudendole a chiave in stanze segrete della nostra mente. Questa dissociazione, come spiegato dallo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi, è un meccanismo di difesa che ci permette di affrontare il dolore senza essere sopraffatti. La dissociazione è un tema centrale nel film “Elisa”, diretto da Leonardo Di Costanzo e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, che ha suscitato un notevole interesse per la sua profonda esplorazione della psiche umana attraverso la storia di una donna, interpretata dall’attrice Barbara Ronchi.
La storia di Elisa
Elisa ha trascorso dieci anni in carcere per aver ucciso brutalmente la sorella, ma non ricorda nulla di quel tragico evento. Questa amnesia, a prima vista incomprensibile, viene esplorata attraverso il personaggio di un criminologo, interpretato da Roschdy Zem, che la guida in un viaggio di scoperta di sé e del suo passato. Lingiardi sottolinea che la dissociazione di Elisa rappresenta un caso estremo di un meccanismo psichico complesso: il ricordo di esperienze traumatiche viene sequestrato, influenzando la personalità e il comportamento senza che la coscienza ne sia consapevole.
Manifestazioni della dissociazione
La dissociazione può manifestarsi in modi diversi, non solo in situazioni estreme come quella di Elisa. Secondo Lingiardi, tutti noi utilizziamo forme di dissociazione nella vita quotidiana, come strategie adattive per affrontare situazioni di stress o dolore. Tuttavia, le esperienze traumatiche, in particolare quelle subite durante l’infanzia, come abusi o maltrattamenti, possono portare a forme più gravi di dissociazione. Ecco alcuni esempi di come può manifestarsi:
- Dimenticanza di eventi traumatici.
- Alterazioni della percezione di sé.
- Distanza emotiva da situazioni stressanti.
Questa fuga mentale è una risposta naturale quando il corpo è costretto a subire violenze, mentre la mente cerca di scappare.
Il ruolo del criminologo
In “Elisa”, il lavoro del criminologo non è solo quello di indagare un crimine, ma di aiutare la protagonista a riunirsi con il proprio io e la propria storia. Questo processo, sebbene inizialmente turbolento e doloroso, rappresenta un’opportunità per Elisa di affrontare il male che l’abita e di ricostruire la propria identità. Lungi dall’essere un percorso facile, la scoperta di sé porta con sé un dolore che può superare quello della reclusione. Tuttavia, questo dolore è necessario per la crescita e la rielaborazione del passato.
Lingiardi sottolinea l’importanza della relazione tra il criminologo e Elisa, evidenziando che il supporto di un’altra persona è fondamentale per affrontare il trauma. La possibilità di raccontare la propria storia e di tornare in contatto con le proprie esperienze è cruciale per non rimanere intrappolati in una vita dissociata. Il film trae ispirazione da un libro intitolato “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro”, scritto dai professori Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, che approfondisce le dinamiche relazionali nell’ambito della criminologia.
Riconoscere l’umanità nel male
Un altro aspetto interessante del film è l’introduzione del personaggio interpretato da Valeria Golino, una madre che ha perso il figlio in circostanze violente. La sua presenza rappresenta una voce di dolore e incomprensione, rendendo ancora più complessa la questione del riconoscimento dell’umanità anche in chi ha commesso atti terribili. Lingiardi osserva che è difficile, ma necessario, riconoscere l’umanità nel male. La frase “buttiamoli in galera e buttiamo via la chiave” è spesso pronunciata, rivelando una mancanza di volontà di affrontare le complessità della natura umana.
Lingiardi richiama l’attenzione sull’importanza di interrogarsi di fronte al male, piuttosto che voltare le spalle. La Costituzione italiana, con il suo articolo 27, parla di rieducazione del condannato, un principio che invita a riflettere su come affrontiamo la criminalità e la violenza nella nostra società. Raccontare storie come quella di Elisa non è solo un atto di giustizia per il condannato, ma è anche un’opportunità per la società di confrontarsi con le proprie paure e di riconoscere che il male è una dimensione intrinsecamente umana.
La narrazione di Di Costanzo si fa così portavoce di un messaggio profondo e complesso: la conoscenza di sé, pur dolorosa, è essenziale per non rimanere prigionieri di un passato dissociato. La possibilità di affrontare il trauma, di riconoscere il dolore e di riannodare i fili della propria esistenza è un tema universale che risuona nella vita di tutti noi. La storia di Elisa, quindi, diventa non solo un racconto di violenza e sofferenza, ma anche di speranza e di possibilità di redenzione.