Le parole del ministro nordio sui ricorsi contro le sentenze di assoluzione hanno acceso nuovamente il dibattito nel mondo giuridico. La recente richiesta della procura di palermo alla cassazione, che ha scelto una strada diretta, ha messo in evidenza le criticità di un sistema giudiziario intasato da milioni di processi. Tra le proposte più discusse c’è quella di eliminare il ricorso in appello per le assoluzioni, mantenendo però la possibilità di impugnare le sentenze davanti alla cassazione.
Lo stato attuale della giustizia italiana e il sovraccarico delle aule
Alfonso celotto, professore di diritto costituzionale all’università roma tre, ha sottolineato come il settore giudiziario sia ormai soffocato da un numero enorme di procedimenti pendenti. Attualmente il sistema conta circa cinque milioni di cause aperte. Questa mole enorme di lavoro genera ritardi molto lunghi e ostacola il corretto svolgimento dei processi.
Celotto indica come prioritario un intervento mirato per alleggerire i tribunali. In particolare, si torna a parlare della possibilità di introdurre una riforma che elimini il ricorso in appello per le sentenze di assoluzione in primo grado. Questa scelta, secondo lui, sarebbe una modalità concreta per limitare le controversie doppie, a patto che sia inserita in un insieme più ampio di misure per semplificare il carico penale.
Il professore ricorda che l’attuale sistema prevede già la possibilità di ricorrere direttamente in cassazione e che, contrariamente a quanto si pensa, la costituzione non garantisce l’appello in tutti i casi. Quindi la strada per tagliare un grado di giudizio esiste già dal punto di vista normativo.
La proposta di eliminare l’appello sulle assoluzioni e i tre presupposti necessari
Il docente spiega che la soppressione del ricorso in appello contro le assoluzioni non deve essere un provvedimento isolato. Per essere efficace e costituzionalmente accettabile, questa modifica deve accompagnarsi a interventi deflattivi che riducano il numero di reati perseguiti nei tribunali penali.
La sua idea è di alleggerire il carico processuale eliminando reati di minore importanza o ripensando la loro rilevanza penale. Un intervento simile alleggerebbe i tribunali e consentirebbe un più rapido svolgimento delle udienze.
Celotto indica inoltre la necessità di mantenere il ricorso in appello nelle sentenze di condanna, sia in ambito civile che penale. Questo garantisce una forma di tutela essenziale per i diritti degli imputati e delle parti civili. Il rischio di lasciare senza possibilità di revisione una condanna definitiva sarebbe troppo alto.
L’interpretazione costituzionale e cosa prevede la normativa attuale
In riferimento alla costituzione italiana il professore conferma che il diritto all’appello non è assoluto. La carta costituzionale stabilisce espressamente il ricorso per cassazione come imprescindibile garanzia, ma non impone che l’appello sia garantito in tutti i casi.
Questa interpretazione apre la strada a riforme che possano limitare la possibilità di impugnare le assoluzioni, su sentenze che risultano non colpevoli, per evitare duplicazioni eccessive. Secondo questa lettura, si potrebbero eliminare anche gli appelli civili senza violare i principi fondamentali.
Il principio che mantiene intatto il diritto di ricorso in appello per le condanne si basa su ragioni di tutela giuridica, per consentire una revisione approfondita delle sentenze sfavorevoli. Lo schema ipotizzato, quindi, prevede due velocità diverse in base alla natura della decisione giudiziaria.
Le critiche e le difficoltà della riforma oltre l’annuncio del ministro nordio
Il ministro nordio ha accennato all’idea di una sorta di “scudo” per le sentenze di assoluzione, intendendo la cancellazione dell’appello in questo caso. Il termine ha suscitato qualche polemica, perché può portare a fraintendimenti riguardo ai meccanismi di tutela legale.
Celotto puntualizza che questa proposta, se correttamente modulata, può contribuire a ridurre i tempi della giustizia, che restano una delle principali criticità del sistema italiano. La riforma cartabia, infatti, non ha ancora dimostrato di aver inciso in modo significativo sul numero o sulla durata dei procedimenti.
Secondo il costituzionalista la vera sfida è nella riforma del catalogo penale, dove sono ancora in vigore circa mille fattispecie di reato. La depenalizzazione sarebbe dunque la strada migliore per snellire la giustizia in modo duraturo.
Il peso della lentezza dei processi e la necessità di interventi strutturali
Il dibattito torna spesso sulla lentezza con cui i processi si svolgono in italia. Tra motivi organizzativi e legislativi, i procedimenti si prolungano per anni, causando un effetto negativo sia per chi è imputato sia per chi attende una sentenza.
La riforma della separazione delle carriere dei magistrati ha diviso gli esperti ma non ha affrontato il problema fondamentale. Celotto indica che il nodo vero resta la quantità di reati presenti nel codice penale e la conseguente mole di lavoro per giudici e pubblici ministeri.
La proposta di togliere l’appello per le assoluzioni avrebbe senso solo all’interno di un progetto complessivo, che contempli una riduzione mirata dei procedimenti e un alleggerimento complessivo degli uffici giudiziari. Se mantenuta come singolo intervento rischia invece di creare nuovi problemi di garanzia per gli imputati.
Proprio sul punto dei tempi di attesa per i processi civili e penali, gli addetti ai lavori continuano a richiedere interventi più decisivi, capaci di chiarire le regole e abbattere il sovraccarico delle aule.
Le parole del ministro nordio avranno probabilmente un seguito in un confronto parlamentare, dove si dovrà valutare con attenzione se la soppressione dell’appello sulle assoluzioni potrà diventare una realtà, anche in relazione alle esigenze dei diritti costituzionali e alla reale possibilità di snellire la macchina giudiziaria italiana.