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Il ponte morandi, il ruolo della gestione e le evidenze ignorate prima del crollo del 2018

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Il processo che riguarda il crollo del ponte Morandi a Genova ha riportato al centro dell’attenzione il comportamento di chi aveva in carico il monitoraggio e la manutenzione della struttura. Quel tragico 14 agosto 2018, che costò la vita a 43 persone, ha fatto emergere la questione della responsabilità nella prevenzione e nella sorveglianza tecnica dell’opera. Le dichiarazioni del pubblico ministero Marco Airoldi hanno ricostruito un quadro in cui i segnali di degrado erano noti da decenni ma ignorati o sottovalutati.

Il ruolo degli addetti e le responsabilità nella sorveglianza del ponte

Durante l’udienza con la requisitoria, il pm Marco Airoldi ha spiegato che chi gestiva il ponte aveva un dovere preciso: un controllo costante e procacciarsi tutte le informazioni necessarie per la sicurezza dell’opera. Ha paragonato la gestione a quella di un medico che deve capire cosa non va in un paziente, senza fermarsi a pregiudizi. L’idea che “i ponti non crollano” ha portato a una sottovalutazione grave, simile a ignorare i segnali clinici evidenti di una malattia. Questa visione distorta avrebbe bloccato un’azione efficace e continua per la manutenzione. È emerso che il mancato intervento non è frutto di un imprevisto assoluto ma di una scelta operativa che ha ridotto al minimo i controlli tecnici.

I primi segnali di allarme e le analisi degli ingegneri zanetti e morandi

Già nel 1975, l’ingegnere Zanetti aveva acceso un campanello d’allarme affermando che il ponte presentava segni di una sofferenza strutturale, paragonando lo stato dell’opera a quello di un organismo non in buona salute. L’ingegnere ricorda che non era una struttura sana, un giudizio netto rispetto alla sua condizione. Ancora più esplicite furono le parole di Riccardo Morandi, ideatore del ponte, che nel 1981 inserì in una sua relazione la constatazione del deterioramento già evidente dopo meno di dieci anni dalla costruzione. Morandi non si limitò a documentare il degrado, suggerì azioni precise come l’ispezione dei cavi e l’uso di tecniche approfondite come i raggi X per valutare lo stato interno delle funi portanti.

La mancanza di interventi e l’effetto del bias cognitivo

Questi segnali, presenti ben prima del 2018, avevano bisogno di un’azione diretta e continua, che purtroppo non ci fu. Il pm ha evidenziato come il concetto base, ribadito più volte dallo stesso Morandi, fosse quello di controllare in modo specifico i cavi del ponte, elemento fondamentale della sua stabilità. Tuttavia, la convinzione errata, un vero e proprio bias cognitivo, che “i ponti non crollano” ha spinto alla trascuratezza delle misure di sorveglianza e manutenzione. Questa sicurezza di fondo ha portato a una gestione insufficiente delle verifiche tecniche, lasciando il ponte in condizioni sempre più precarie. Le difese degli imputati hanno definito il crollo un evento imprevedibile, ma le evidenze dimostrano che da anni c’erano segnali chiari e ignorati.

Testimonianze e responsabilità condivise

Le testimonianze e le relazioni raccolte durante il processo non lasciano spazio a dubbi sulla consapevolezza che circolava attorno allo stato del ponte Morandi. A prendere la parola sono stati sia chi ha progettato sia chi avrebbe dovuto salvaguardare l’opera, ma quel dovere non è stato rispettato con la necessaria attenzione e rigore tecnico. La tragedia del 14 agosto 2018 si inserisce dunque in un contesto di allerta ignorata e responsabilità condivise.

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