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Come il lavoro si insinua nella vita privata |
Ho pensato di chiamarla così, riciclando il buon vecchio concetto di famiglia allargata post-industriale, quella in cui tre generazioni vivevano sotto lo stesso tetto per far fronte ai problemi economici. Oggi l'espansione dei confini famigliari non si verifica più nella direzione dei nostri parenti, ma in quella del lavoro, che non appartiene ad una sfera ben distinta, ma si fonde con la vita privata, finendo per rovinarla.
In questo articolo scopriremo insieme come il lavoro si sia ormai insinuato nella nostra vita privata e quale correlazione esista tra l'incremento dell'impegno professionale e quello dei conflitti familiari.
Le origini della schiavitù da lavoro
La seconda rivoluzione industriale, iniziata nel 1870, ha portato all'introduzione di macchinari sempre più sofisticati che hanno aumentato la produttività delle aziende, immettendo sul mercato un numero elevato di beni a prezzi sempre più contenuti. Questo ha causato un'esplosione demografica senza precedenti e la nascita di quello che oggi chiamiamo consumismo.
Tutti i nostri problemi hanno origine in quegli anni, dove per la prima volta l'uomo ha iniziato a dare importanza al superfluo e a perdere la capacità di auto-sostentamento, entrando a far parte di catene produttive nelle quali rappresentava solo una parte dell'intero processo, una pedina che non richiedeva competenze specifiche e pertanto facilmente sostituibile.
Contestualmente, la nascita della borghesia produttiva ha creato i primi modelli di ricchi imprenditori, dando vita al principio secondo il quale ricoprire un ruolo di prestigio significa guadagnare meglio e quindi essere più felici. L'illusione fu così forte da spingere le donne addirittura a
lottare al fine di poter lavorare, all'interno di quel processo definito “
emancipazione femminile”.
Lavorare per essere liberi, come se stare dodici ore in fabbrica potesse in qualche modo elevare le persone e renderle migliori.
Lentamente quindi tutti siamo stati fagocitati nel meccanismo produttivo; vengono così fondate le basi per la nuova famiglia allargata. Contestualmente hanno avuto luogo forti proteste atte a migliorare le condizioni di lavoro di tutti. Queste lotte, a tratti veramente dure, hanno insegnato a chi comanda una lezione molto importante: se il popolo è palesemente schiavizzato, prima o poi si ribella, quindi occorre attuare un processo di oppressione invisibile, cercando di aumentare la produttività e le ore di lavoro in un modo che non dia nell'occhio, cioè facendo passare tutto questo per un vantaggio. Ecco come hanno fatto.
Cosa sta accadendo oggi
Non meno di una decina di anni fa ci si è accorti che troppa dedizione al lavoro abbassava la produttività delle persone; concedendo maggiori svaghi, invece, queste affrontavano il lavoro in maniera positiva, rendendo di più e lamentandosi di meno.
Oggi questa strategia è divenuta la prassi, tanto che tutte le grandi aziende aderiscono a programmi di lavoro-famiglia; adottarla non rappresenta più un vantaggio competitivo, tanto che ci si è dovuti inventare qualcosa d'innovativo e ancora più subdolo. Il nuovo inganno, recentissimo e dal quale ci dobbiamo ben guardare, consiste nel cercare lentamente di fondere la vita privata con quella lavorativa, in modo tale che le persone, lentamente, si abituino ad un nuovo concetto d'impiego, inteso come parte integrante e ovvia dell'esistenza di tutti. Questa manipolazione sta accadendo proprio in questo momento e viene attuata dando alle persone dei finti benefit, come la possibilità di lavorare da casa, utilizzare un cellulare o una macchina aziendale o dando più soldi per aderire a servizi di “reperibilità d'emergenza” nelle ore extra lavorative.
Apparentemente il dipendente crede di aver ottenuto un vantaggio importante, qualcosa che lo fa sentire un gradino sopra gli altri numeretti come lui, si vanta di avere un nuovo e costoso cellulare in "regalo" o di aver ricevuto in dotazione una vettura senza pagarla, ma tutto questo viene concesso al solo scopo di
aumentare la produttività. Non a caso l'unica cosa che veramente potrebbe fare la differenza, cioè un sostanzioso
aumento di stipendio, viene concesso con il contagocce.
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Quello che vogliono è cercare di creare una sorta di “famiglia allargata” dove il lavoro s'insinui silenziosamente nel privato, diventandone parte. Accade quindi che il telefono aziendale diventa uno strumento attraverso il quale veniamo contattati fuori dall'orario di lavoro, che la reperibilità ci rovini la gita in campagna con la famiglia e l'auto, uno strumento per legare la nostra indipendenza all'azienda. Se oggi è considerato “normale” avere giusto un paio di ore libere al giorno da dedicare a se stessi o alla famiglia, col tempo sta diventando comunemente accettato poter essere
disturbati anche nel privato.
Le donne, accortesi che il lavoro non è “emancipazione” ma impossibilità di essere madri serene e presenti, hanno oggi la loro nuova grande illusione; in alcune regioni d'Italia vi sono infatti leggi che agevolano i padri che scelgono di restare a casa ad accudire i neonati, in modo da permettere alle donne che hanno appena partorito di tornare a lavorare il prima possibile. Viene spacciata come “opportunità” di tenersi il posto di lavoro, ma è un subdolo trucco per aumentare la produttività: quello di cui le donne necessitano è tutela, è la possibilità di fare le mamme il più a lungo possibile, godersi i figli in tranquillità, certe di mantenere l'impiego che hanno temporaneamente accantonato. Nella maggior parte dei casi una donna che diventa madre tende a modificare i propri valori e a sacrificare qualunque cosa per la famiglia; il sistema sa bene che se riesce a legare saldamente le donne al lavoro sarà riuscito a soffocare anche questa naturale tendenza, aprendo un vero e proprio varco verso la creazione della nuova famiglia allargata.
Non c'è niente di più efficace che far passare per vantaggioso qualcosa che in realtà ci priva della nostra libertà, come in quella pubblicità dove ci viene spiegato che acquistando la tal automobile potremmo filare veloci su lunghe strade vuote, quando poi siamo tutti incolonnati in tangenziale, e l'unica cosa che si è svuotata è stato il nostro conto corrente. Oggi la schiavitù si attua così, con processi lenti e silenziosi, a cui ci abituiamo senza accorgercene.
Dall'infelicità alla malattia mentale
La società industriale non ha fatto altro che cercare di incrementare la produttività, cioè riuscire a creare più oggetti possibili in sempre meno tempo, limitando al massimo le uscite in denaro. Tutto questo in nome dello stramaledetto profitto, un traguardo che è sempre stato l'unica aspirazione d'imprenditori e manager, per il quale sono state inventate e promosse le strategie di cui abbiamo appena discusso. Come spiega
Joseph Stiglitz la crescita della produttività è tale per cui col tempo si ha meno bisogno di lavoratori, perché tutto diventa più efficiente, quindi, ciò che prima richiedeva l'apporto di sei braccia oggi ne richiede solamente due. I posti di lavoro sono pertanto destinati a diminuire, mentre la produzione rimarrà quantomeno invariata, contribuendo a creare un mercato saturo di oggetti e servizi, ma persone sempre più povere, che col passare del tempo non si potranno permettere tutto il superfluo di cui prima si contornavano.
Questa situazione non fa altro che aumentare l'infelicità generale: chi ha un lavoro viene spremuto come un calzino, chi non lo ha vive nell'ansia di non arrivare a fine mese e chi guadagna il giusto per vivere è infelice perché ha dovuto rinunciare a tutto quello che prima gli riempiva (seppur in modo effimero) la vita.
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Non si tratta di teorie o proiezioni, ma della
realtà in cui viviamo, avvalorata dai dati oggi disponibili: l'Europa e gli Stati Uniti spendono ogni anno circa 500 miliardi di euro per curare le
Malattie Stress Correlate, mentre la perdita del lavoro ha causato un aumento delle malattie mentali che si stima essere pari al 3% del PIL.
La causa di questo stato di malessere è ancora una volta da ricercarsi nell'insinuarsi sempre più profondo dell'impiego nella vita privata, che deriva dal costante tentativo di creare una nuova famiglia allargata al lavoro. Chiunque, a qualsiasi livello, è consapevole che ad un incremento dell'impegno professionale corrisponde un aumento dei conflitti familiari. Cercare di mischiare il lavoro con la famiglia costringe le persone a dover, sempre più spesso, scegliere a chi dedicare tempo ed energie, dando vita ad un conflitto continuo con se stessi e le persone che ci circondano.
In due parole questa è l'infelicità, ovvero l'assenza di equilibrio e di punti fermi su cui costruire la propria esistenza. E sta succedendo ora, in tutto il Paese, giorno dopo giorno.
Come difendersi dalla famiglia allargata
Ogni anno aumentano i casi di stress da lavoro e con essi quelli di persone costrette a ricorrere alla psicoterapia per curarsi. In questi contesti emerge che le richieste avanzate al medico o allo psicologo non riguardano un aiuto concreto al cambiamento, ma soltanto la ricerca di un farmaco o una terapia che permetta di ottenere risultati migliori, mantenendo invariata la situazione. In pratica viene sempre meno contemplata la “rinuncia” come forma di risoluzione al problema: rinunciare a dedicare molte ore al lavoro non è accettata come possibilità, mentre sarebbe l'unica in grado di farci realmente guarire.
Quello che va fatto è mettere la retromarcia e
allontanare il lavoro dalla sfera privata fin dalle prime avvisaglie di pericolo; non facciamoci invogliare dal denaro o da qualche bonus, la libertà e la felicità stanno nel privato, negli hobby e nella famiglia. Anche se inizialmente ci sentiamo partecipi e importanti e dall'alto ci danno delle gran pacche sulle spalle per l'impegno extra dimostrato, ricordiamoci sempre che a lungo andare questo atteggiamento creerà problemi in famiglia, abbassando la qualità della nostra vita.
Siamo liberissimi di prediligere la carriera alla famiglia, ma quando la nostra vita privata andrà a rotoli, dobbiamo avere il coraggio di ammettere che è stata colpa nostra, che lo sapevamo e che abbiamo comunque scelto di dare più importanza al lavoro che ai nostri figli.
Se invece intendiamo lottare, allora creiamo ogni giorno le condizioni per le quali, terminato l'orario di lavoro, questo rimanga confinato all'interno delle quattro mura aziendali, in modo da poter godere di ore serene e indisturbate, dove costruire la vita vera, quella fatta di svago ed affetti. Nessuno, a meno di condizioni veramente straordinarie, dovrà considerare normale disturbarci nel privato; la famiglia non si allarga al lavoro, anzi, ripristiniamo i rapporti persi con parenti ed amici, solo così invertiremo la tendenza e potremmo ristabilire i sacri confini tra le bugie del profitto e le verità degli affetti.
Realistico e tristemente veritiero....auguri gente
RispondiEliminaGran bel articolo. Complimenti.
RispondiEliminaRicordo ancora la mentalità che avevano i miei colleghi nel mio precedente lavoro.
Dicevano: " E' egoistico pensare di farsi le proprie 8 ore di lavoro e poi andare a casa. Per tenere in piedi la baracca se serve bisogna trattenersi oltre. "
L'azienda vista come una grande famiglia, e tutti devono dare il massimo (cioè andare oltre i propri limiti) per tenerla viva.
Addirittura il mio datore di lavoro mi aveva confessato che anche quando tornava a casa la sera il pensiero era sempre sul lavoro. Ero pietrificato dalle sue parole, non si rende conto che ha annullato la sua vita.
Ciao Francesco, grazie per il post.
RispondiEliminaPreciso che non amo il mio mestiere, ricevuto/imposto dai genitori, comunque ho sempre cercato di dare tanto sul
lavoro, non per amore aziendale bensì per essere soddisfatto a fine giornata e non avere problemi con colleghi con la puzza sotto il naso.
In realtà i miei colleghi hanno sempre fatto solo lo stretto indispensabile, ed io, avendo qualche conoscenza
tecnica in più mi sono ritrovato a lavorare di più!
Morale della favola, ho lo stipendio più basso degli altri, subisco pressioni per le tempistiche dei lavori da
parte di superiori, i colleghi sono comunque un po' scontenti perchè vorrebbero svolgessi anche qualcuna delle loro
mansioni, non ho ricevuto alcun merito di quanto svolto in questi ultimi anni.
La mia soddisfazione deriva dal mettere in pratica le mie capacità e conoscenze, e ci riesco bene.
In ultima analisi ho espresso chiaramente ai colleghi il fatto di non poter collaborare con loro se sono oberato da
altre mansioni, questo ha creato una sorta di sacrilegio, sono stato dipinto come uno che non si interessa del
lavoro. Sinceramente amo mantenere buoni rapporti con i colleghi, quindi mi sono un po' rimangiato quanto detto,
sottolineando però di essere molto impegnato e senza un aiuto concreto da nessuno.
Questo problema invade la mia vita privata, rovina il mio buon umore mentre sono a casa con la mia famiglia, genera spesso un sentimento di rabbia e disprezzo per i colleghi, che bado bene a nascondere, sperando di non esplodere.
Sai, credo che lavorare non sia una cosa così malvagia, ti permette di provare soddisfazione, mangiare e bere con spensieratezza visti i buoni frutti che il tuo duro lavoro ha prodotto.
Ma l’equilibrio è fondamentale. Il lavoro sta divenendo sempre più un’ossessione.
Le persone hanno perso il senso della vita, sono vuote, superficiali, si riempiono la bocca di scemenze e ideali ridicoli.
Alla prossima,
Massi
ciao a tutti, e complimenti a Francesco per l'articolo! se me lo permetti vorrei aggiungere che con l'attuale situazione di crisi economica le varie invasioni della sfera lavorativa in quella privata stanno diventando condizioni necessarie per ottenere o mantenere il posto di lavoro e non sono più associate a benefit o riconoscimenti; parole come flessibilità, adattabilità, disponibilità, sono i requisiti fondamentali richiesti per ogni posizione lavorativa e spesso significano accettare qualsiasi condizione pur di lavorare. in pratica prima siamo diventati dipendenti dal lavoro in quanto non più capaci di auto sostentamento, ci siamo riempiti di tantissimi bisogni materiali e ora il lavoro stesso scarseggia e quindi stiamo iniziando a fare di più, per meno. basta guardare ai tanti dipendenti di aziende in crisi che continuano a lavorare per mesi senza stipendio per tenersi il posto, i lavori "a chiamata" dove si è praticamente reperibili o i vari lavori a provvigione dove si guadagna in base a quanto si vende e non a quanto si lavora; per non parlare del lavoro nero o dei casi in cui si accetta di percepire uno stipendio part time per un lavoro a tempo pieno, pur di avere un lavoro.la paura ci spingerà ad accettare l'inaccettabile,se non iniziamo a riprenderci la nostra indipendenza!vivere con poco non è una condizione di cui sentirci vittime ma una capacità da sviluppare, perchè non è ricco chi ha molto ma chi ha meno bisogno! complimenti per il blog, molto interessante e pieno di consigli utili, mi ha aiutato a ritrovare la giusta prospettiva di guardare le cose!quindi grazie! Alessia
RispondiEliminaE' un piacere per me leggere i vostri commenti, così ricchi di spunti e di verità che mi aiutano a focalizzare meglio i concetti e ad ampliare il mio punto di vista. Vi ringrazio molto, sono molto apprezzati! :)
RispondiEliminaIn relazione all'aumento di efficienza produttiva che implica necessariamente perdita di posti di lavoro, c'è una proposta di un filosofo americano del secolo scorso, Lewis Mumford, che, anticipando in maniera lucidamente visionaria le aberrazioni della tecnocrazia, riconosce come unica strada percorribile il recupero dei mezzi di produzione sotto il controllo pubblico: l'aumento di efficienza produttiva con la sostituzione della forza lavoro ad opera delle macchine può solo così produrre riduzione delle ore di lavoro e della fatica fisica, attraverso una redistribuzione delle risorse che solo dall'alto può provenire. Infatti, lasciando tutto all'iniziativa individuale/privata non si interromperà certo la catena efficienza-profitto, con costi sociali elevatissimi e saccheggio di risorse economiche ed umane di nuovi mercati (paesi emergenti) fino ad esaurimento. Certo, per attuare il modello di Mumford occorre una diffusione su larga scala dell'integrità come valore; occorre orientare tutte le azioni a tutti i livelli verso orizzonti solidaristici. Questa a me pare la sfida più grande.
RispondiEliminaIl modello di Mumford si chiamava Unione Sovietica, poi il fatto che si ricordi sopratutto per le sue analisi a proposito di Utopia la dice lunga....
EliminaI precipitati storici non coerenti con i modelli sono un effetto collaterale di tutte le idee/ideologie; anche i modelli liberistici/di libera concorrenza nelle intenzioni dei teorici avrebbero dovuto produrre solo benefici per parte del consumatore; i modelli democratici avrebbero dovuto garantire libero accesso alla vita politica e trasparente controllo dell'operato dei rappresentanti dai rappresentati; i modelli di stato di diritto, coerente separazione tra i poteri etc. Sto semplificando, ovviamente; ma mi piacerebbe molto che ogni tanto si formulasse qualche proposta anzichè ritenere qualunquisticamente che è tutto inutile e niente sia possibile trasformare.
EliminaIl ruolo delle utopie, da un punto di vista sociopolitico, è di orientare la formulazione di modelli concretamente attuabili nel mondo; non sono favole da raccontare ai bambini prima di andare a dormire.
L'unione sovietica è un precipitato storico, non è il modello; trovo quindi un po' forzato voler a tutti i costi disconoscere il valore della formula teorica banalizzandola nel naufragio di una esperienza storica che per assonanza gli si accosta.
Mumford era anche un urbansta, se vogliamo ricordarlo per gli studi urbanistici facciamolo pure; ma non mi pare che le proposte in merito fossero discontinue rispetto al pensiero utopistico di cui si discute; Mumford non pensava a modelli urbani ove sovraffollamento, caos potessero rendere la vita dei lavoratori stressante e logorante; no, è un teorico della città giardino, offerta come proposta urbanistica in molti casi anche italiani come palliativo alla disagevole condizione di vita di molti quartieri di nuova urbanizzazione nella fase di deruralizzazione e sviluppo industriale del novecento.
Mi spiace che come al solito si cerchi di politicizzare in maniera più o meno strisciante qualsiasi idea; rimane la mia percezione che la sfida più grande sia quella di cui dicevo: diffondere l'integrità come valore senza partigianerie.
Trovo questo articolo profondamente scorretto, di parte ed egocentrico nel senso che sembra scritto più per giustificare le sue scelte di vita che per discutere delle problematiche del mondo del lavoro odierno, se a lei non va di lavorare è una scelta sua ma non chiami schiavi ed infelici chi sbatte per vivere. Inoltre se cita dei numeri e degli studi indichi anche le fonti per favore, dire la causa delle malattie stress correlate è “nell'insinuarsi sempre più profondo dell'impiego nella vita privata” presumo sia una sua conclusione personale e non un dato oggettivo. Infine una curiosità perché usa l’espressione “stramaledetto profitto” lei non trae un profitto da questo blog?
RispondiEliminaCiao, in questo blog esprimo la mia opinione, quindi sì, sono conclusioni a cui arrivo io, un blog è esattamente questo, un posto dove le persone si esprimono. Non pretendo che tutti siano d'accordo con il mio pensiero, non è nemmeno mia intenzione voler convincere nessuno.
EliminaCaro anonimo26/3 delle 17.06 dal tuo commento un pò ''acido'' presumo che ha qualche problema di capacità elaborativa del pensiero.Trovo l'articolo un elemento di riflessione ,infine spetta al lettore trarne le conclusioni,senza criticarle in modo sdegnato .Trovo giustificato la richiesta delle fonti d'ispirazione,come del resto è corretto trovare un nome al posto dell'anonimo.
EliminaBuon vento
Egregio mi scusi il mio "problema di capacità elaborativa del pensiero" mi impedisce di capire perché lei offende chi educatamente esprime la sua opinione, inoltre non mi è chiaro perché mi venga proibito di criticare in modo sdegnato chi definisce la gente che lavora schiavi ed infelici. Citando la risposta di Francesco (che ringrazio) "questo è un posto dove le persone di esprimono" non dove si insultano. Infine l'anonimato è una scelta che viene lasciata se non fosse gradita l'autore potrebbe cambiarla. La saluto.
EliminaNon litigate nè :) Comunque vorrei sottolineare che attualmente io lavoro, solo che sto cercando di smettere per vivere veramente la vita, con un progetto che in questo momento mi porta a lavorare il doppio di un "normale" lavoratore, facendo due attività extra. Dunque tra le fila degli schiavi infelici mi ci ritrovo a pieno titolo.
Elimina"Dunque tra le fila degli schiavi infelici mi ci ritrovo a pieno titolo"
EliminaForse fra il dire ed il fare....
Complimenti comunque per il tuo blog
Ciao Francesco,leggendo i tuoi articoli dedicati al mondo del lavoro mi è venuto in mente un episodio che è accaduto 40 anni fa'. La prof di italiano della terza media ,ci chiese di scrivere se per noi il lavoro era un dono o una punizione.Io come tutti gli altri scrissi che era un dono(ma intimamente pensavo che fosse una punizione)non scrissi quello che pensavo realmente perchè in un'altra occasione,sempre con la stessa prof ,rispondere con sincerita' mi causo' essere dileggiato dalla prof stessa.Sono 15 anni che lavoro in una fabbrica,dopo che ho fatto per 20 anni l'artigiano, e ora sono sicuro che il lavoro è una punizione.Complimenti per il blog.molto stimolante.
RispondiEliminastoria interessante, probabilmente avrei risposto anch'io che il lavoro è un dono... da fare agli altri però ;)
EliminaE di sicuro il lavoro NON nobilita l'uomo :D per lo meno non in fabbrica
RispondiEliminaVorrei consigliare a tutti di informarsi riguardo la Nuova Rivoluzione Tribale e le teorie di Daniel Quinn ad essa correlate. Rispetto alla teoria di Lewis Mumford, trovo quella del Quinn più legata al fattore umano e più realistica nella sua semplicità. Secondo il mio personale parere l'uomo non è nato per lavorare (se per lavoro intendiamo l'accezione che tutti conosciamo) bensì è nato per vivere la vita come qualsiasi altra specie di essere vivente presente in questo pianeta. Riprendendo una nota frase: "L'uomo è l'unico animale che lavora per guadagnarsi la vita"....
RispondiEliminaCiao a tutti,
RispondiEliminaritengo sia un buon articolo con buoni spunti, da leggere con spirito critico comunque.
Riporto la mia esperienza:
sono un analista programmatore bancario da oltre 30 anni ed ho visto (e sto vedendo tuttora) persone rovinarsi la vita , rimaste sole , senza rapporti sociali e affettivi , con rapporti umani ridotti all'osso.
Tutto questo per un pugno di lenticchie.. in fondo ...
Colleghi con VERTEBRE FRATTURATE che lavorano da casa in malatia, colleghi che non riescono a starsene a casa, nel vuoto della loro esistenza, neppure un giorno, che non sono piu' in grado di prendere un libro in mano, di farsi una passeggiata .... Li sento ogni giorno lamentarsi per ore, della durezza del lavoro, dell'impossibilità di potersi prendere una giornata di ferie, del fatto che debbono dare assistenza alle banche anche al sabato e alla domenica..che sono obbligati a venire a lavorare anche con la febbre ...a 39 !! Oramai i loro lamenti per me sono un mantra!! ..Il rito propiziatorio della giornata !!
Personalmente rimasi molto colpito una ventina di anni fa quando lavoravo in una banca in cui dismisero un computer di classe "mainframe" : il giorno prima i "programatori di sistema" (io sono un programmatore applicativo) venivano considerati semidei, strapagati,coccolati,viziati ....il giorno dopo presi a calci nel sedere , relegati in squallide stanzette, tolto il saluto, trattati come appestati ...capii in fretta , sono sempre stata una persona molto intelligente che impara molto.. molto in fretta....;)...